Tutte le arti contribuiscono all'arte più grande di tutte: quella di vivere (Bertolt Brecht)

Arte

NICOLAS POUSSIN, Et in Arcadia ego (1640 circa), Louvre

NICOLAS POUSSIN, Et in Arcadia ego (1640 circa), Louvre

Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego (1640 circa), Louvre

Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego (1640 circa), Louvre

Questo quadro, dipinto da Poussin, tra il 1639  e il 1639, è un esempio importante di Classicismo barocco. Il pittore aveva già affrontato lo stesso tema dieci anni prima e un importante precedente è rappresentato da un quadro omonimo del Guercino (1618): il successo del soggetto è dovuto al fatto che nel Seicento il mito dell’Arcadia permetteva di esprimere l’ideale e razionale serenità del vivere immersi nella ‘bella natura’, velata da un malinconico senso d’illusione.
Il dipinto di Poussin rappresenta una scena di pastori, ma non si tratta evidentemente di una riproduzione della realtà contadina: ogni elemento del dipinto, dalle vesti ai gesti pacati delle figure, nobilita la semplicità dei pastori e richiama a un’idea di dignità. Contro ogni divieto a mescolare generi diversi, Poussin rende sublime in genere umile del mondo pastorale, attraverso uno stile nuovo ispirato a nobile semplicità e quieta grandezza. Il pittore rappresenta il pastore in vesti regali e in atteggiamento eroico, trasformando in sublime la naturalezza.
Nel quadro, tre pastori e una figura femminile stanno decifrando l’enigmatica iscrizione di una tomba, Et in Arcadia ego, che può avere diverse letture: può voler dire che “Anche nel mitico mondo dell’Arcadia io, morte, esisto” oppure “Anch’io, pastore, vissi in Arcadia“. Come gli enigmi degli oracoli, il detto è lapidario e semplice, ma allo stesso tempo oscuro e ambiguo. Al centro del dipinto c’è l’iscrizione, attorno alla quale ruotano i quattro personaggi, coordinati in modo che il primo pastore si inginocchia, il secondo si china, la donna rimane eretta, appoggiata a un terzo pastore, e guarda diò che viene indicato. I personaggi, insomma, ci invitano a leggere la scritta.
Ma  a questo punto le interpretazioni divergono. Secondo alcuni critici (E. Panofsky), l’epigrafe rivelerebbe che la morte è dovunque, anche nel luogo della serenità e della bellezza naturale come l’Arcadia. La scoperta della morte come presenza costante, elemento profondamente radicato nelle coscienze barocche, qui, però, è ricondotta a un’atmosfera di serenità e di pacata dolcezza senza i simboli consueti (teschi, ossa, rovine, vermi, etc.). La bellezza ideale e immobile della scena sublima l’esperienza dolorosa che si descrive.
Diversa è l’interpretazione di Reinhard Brandt, il quale si concentra non solo sull’iscrizione, ma anche sull’ombra visibile accanto ad essa, proiettata dalla testa del compagno inginocchiato (particolare iconografico nuovo rispetto alla tradizione del tema). Rifacendosi alle fonti classiche che narrano la nascita della pittura avvenuta nel mondo bucolito dei pastori (e precisamente da un disegno di una linea che ricalcava l’ombra di un uomo, come racconta Plinio nella Storia Naturale), Brandt ipotizza che l’ombra sul sepolcro sia il primo profilo da cui si sviluppa l’arte pittorica, e che la sua presenza, legata all’iscrizione, alluda al fatto che l’arte vince il tempo, dura più della vita.
La figura femminile, che, nel suo gesto, si dimostra partecipe e protettrice, è l’allegoria della Musa dell’Arte pittorica, Pictura: “il tema del quadro è l’arte del suo autore che procura all’artista l’immortalità. Dunque non la morte, ma la pittura, celebrata solennemente” (R. Brandt).