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Arte

“Diana e le ninfe” di Jan Vermeer


Diana e le ninfe è un dipinto a olio su tela (98,5×105 cm) di Jan Vermeer, databile al 1654-1655 circa e conservato nella Mauritshuis all’Aia. Appena visibile è la firma in basso a sinistra: “J.v. Meer”

Il quadro non fa riferimento ad alcun episodio particolare del mito di Diana, insieme a quattro ninfe, una delle quali le lava i piedi. La dea è riconoscibile con la veste gialla in primo piano, grazie alla falce di luna in testa. Una compagna è seduta accanto con un piede sul ginocchio opposto, posa che sembra citare la statua classica dello Spinario; un’altra sta accovacciata e lava un piede della dea con una ciotola d’acqua, vicina a un bacile di metallo e un fazzoletto per asciugare. Una testa sta in piedi e osserva la scena, una quarta è seduta sulla stessa roccia ma di schiena. In basso a sinistra sta accovacciato un cane, che pure guarda la scena a profil perdu.

Curata è la resa materica dei vari elementi, dalle diverse stoffe alla lucidità del metallo, fino alla pelliccia del cane.

Non è chiaro il significato del dipinto: assenti i riferimenti alla caccia, o all’erotismo delle ninfe, potrebbe essere un’allegoria della notte o della morte, oppure sottintendere la tematica cristiana della lavanda dei piedi, come farebbe pensare il tono solenne, estraneo solitamente ai dipinti mitologici.

Il tema della storia mitologica di Diana, che riposa dopo aver fatto il bagno nel torrente, insieme ai suoi fedeli compagni, ninfe e guardando le giovani belle donne Atteone, è stato affrontato nella sua opera da molti artisti di epoca rinascimentale, manierista e barocca. Tra questi ci sono Tiziano, Spranger, Eyteval e altri pittori.

In questa foto del primo periodo di creatività di Vermeer, la notevole influenza di Rembrandt, la composizione compositiva del quadro e le dinamiche del movimento e della comunicazione dei personaggi testimoniano l’imitazione dell’arte del giovane Vermeer sui maestri del caravaggismo italiano, forse sull’opera dell’artista Delft Leonart Bramer, che ha trascorso dieci anni in Italia.

Tra i riferimenti che si possono trovare in opere dell’epoca, sono stati colti quelli compositivi con un dipinto di Jacob van Loo nella Gemäldegalerie di Berlino, la resa pittorica densa legata alla scuola di Rembrandt, la posa della dea derivata dalla Betsabea sempre di Rembrandt al Louvre (1654), le evidente ascendenze italiane. Una certa affinità cromatica si riscontra con il dipinto della Mezzana.

Contrariamente all’interpretazione sensuale-erotica dell’antico mito nella tela di Tiziano, l’immagine statica di Vermeer, quasi priva di azione, sembra innocente e casta.

Col restauro del 1999-2000 si è scoperto che il cielo azzurro che si vedeva sullo sfondo era un’aggiunta posticcia del XIX secolo. Sebbene questa versione sopravviva in numerose fotografie e pubblicazioni, l’attuale aspetto a sfondo scuro del dipinto ottimizza la distribuzione originaria di luci ed ombre. In tale occasione si è tornati ad affermare la paternità di Vermeer, a lungo messa in dubbio, sia per l’assenza di altre opere note dell’artista a tema mitologico, sia per l’insolito tipo di firma e di composizione. Tra i nomi alternativi fatti ci sono quello di un pittore italiano tizianesco (C. Hofstede de Groot), di Vermeer padre (Swillens), di van der Meer di Utrecht (Erik Larsen) o di Jacob van Loo.

Prima del restauro