Tutte le arti contribuiscono all'arte più grande di tutte: quella di vivere (Bertolt Brecht)

Arte

Venere e Cupido (Venere Rokeby) di Diego Velázquez


Diego Velázquez, Venere e Cupido, 1648 circa, olio su tela, 122,5 x 175 cm. Londra, National Gallery

Venere e Cupido (Venere Rokeby) è un dipinto autografo a olio su tela (122,5×175 cm) di Diego Velázquez, databile al 1648 circa e conservato nella National Gallery di Londra.

La Venere Rokeby raffigura la dea della bellezza, dell’amore, della fecondità e della natura primaverile adagiata languidamente su un letto tra lenzuola di raso, con la schiena rivolta verso l’osservatore e le ginocchia piegate. Quello della Venere vista di tergo è un motivo assai ricorrente nella produzione letteraria e pittorica dell’antichità; ciò malgrado, la dea è effigiata senza quegli accessori mitologici generalmente inclusi nelle raffigurazioni della scena; gioielli, rose, mirtilli sono elementi qui assenti (la Venere di Velázquez, tra l’altro, è castana, e non bionda come voleva la tradizione). Possiamo riconoscere Venere nella figura femminile, inoltre, grazie alla presenza del suo figlio, Cupido.

Venere sta fissando uno specchio retto da Cupido, collocato di fronte a lei, che inconsuetamente è ritratto senza la faretra; in questo modo, la dea rivolge il proprio sguardo all’osservatore del dipinto mediante la sua immagine riflessa nello specchio. Ciononostante, il volto rispecchiato della Venere è appannato e rivela solo parzialmente le sue caratteristiche facciali. La critica d’arte Natasha Wallace ha ipotizzato che il volto indistinto della Venere costituisce la chiave d’interpretazione dell’opera, che in questo modo «non si tratta né di un nudo femminile specifico, né di un ritratto di Venere, bensì di un’immagine dell’egocentrismo della bellezza». La posizione dello specchio, comunque, non è coerente con lo scorcio e in realtà per vedere il volto della dea in quella posizione essa si dovrebbe trovare al posto dell’osservatore: si tratta di una licenza artistica.

Sullo specchio troviamo dei fiocchi serici di colore rosa che si intrecciano. La funzione figurativa di questo elemento è stata soggetto di molti dibattiti; la speculazione suggerisce che si tratta di un’allusione al velo usato da Cupido per bendare gli amati, che era usato poco prima per sorreggere lo specchio, e eventualmente per avvolgere il volto di Venere. In tal senso, Julián Gallego rimase molto colpito dalla malinconia tenera e struggente del volto di Cupido, tanto da interpretare i fiocchi come bende che gli impediscono la visione della Bellezza e da conferire al dipinto il titolo di «Amore Conquistato dalla Bellezza».

Le pieghe del lenzuolo su cui è adagiata la dea riproducono – e, in un certo senso, enfatizzano – le ampie curve del suo corpo. La composizione fa un ricorso massiccio a toni rossi, bianchi e grigi, utilizzati pure per la morbida carnagione di Venere; malgrado questo schema cromatico è stato altamente lodato, degli studi compiuti recentemente hanno fatto emergere che il lenzuolo in origine non era grigio, bensì di un intenso color viola poi scoloritosi. I colori luminescenti utilizzati per l’incarnato della dea, applicati con una «pennellata liscia, pastosa, amalgamata», contrastano con le tonalità grigio-nere del telo su cui è stesa, e con il marrone della parete. La Venere Rokeby è l’unico esempio superstite di un nudo femminile di Velázquez, che ne avrebbe realizzati altri tre, come attestato dagli inventari spagnoli del Seicento.

Prima di Velázquez altri grandi artisti come Tiziano, Rubens e Tintoretto avevano trattato il tema della Venere; questo sicuramente avrebbe stimolato l’artista alla realizzazione dell’opera in esame. Le morbide ed eleganti forme provengono dallo studio della statuaria classica.

La pittura spagnola è restia a creare nudi femminili; infatti la Venere allo specchio, insieme alla Maja desnuda di Francisco Goya risultano gli unici nudi nel corso della storia dell’arte spagnola fino a questo periodo. Secondo alcuni studiosi, Velázquez avrebbe realizzato altri nudi femminili di cui ne sarebbero perdute le tracce.

L’opera è stata realizzata in Italia alla fine del secondo soggiorno romano di Velázquez (1649-1659), e probabilmente la modella impiegata era una sua amica pittrice ed amante.