Nel lupanare le prostitute, per lo più schiave greche e orientali, esercitavano la loro professione pagate tra i due e gli otto assi (una coppa di vino ne costava uno).
L’edificio è a due piani. Al superiore ci sono le abitazioni del proprietario e delle schiave, in quello inferiore cinque camere tutte fornite di un letto in muratura si dispongono ai lati del corridoio che connette e due ingressi del pianterreno. Le stanze erano chiuse da una tenda. Sul fondo del corridoio, sotto il vano scala, si vede una latrina.
Sono stati ritrovati numerosi graffiti ricchi di commenti e nomi che hanno reso possibile l’identificazione di almeno 80 prostitute e clienti. Erano indicate anche le preferenze, o in taluni casi le malattie da contagio diffuse. Si utilizzavano anche metodi antifecondativi, come spalmature di oli abbinate all’introduzione di lana imbevuta di succo di limone.
Nell’antica Roma la prostituzione era comunemente accettata. Anche Catone il Censore, l’austero per antonomasia, secondo Orazio (Satire), vedendo un giovane uscire da un lupanare lo lodò perché aveva sfogato la propria “increscevole libidine” con una prostituta senza godersi la moglie altrui.
La clientela era per lo più di bassa estrazione sociale, plebei, mercanti e marinai stranieri di passaggio.
Il lupanare prende il nome da lupa termine latino per designare la prostituta. Le prostitute erano chiamate lupae, da cui il termine lupanar per identificare i bordelli. Nella città di Pompei ne sono stati individuati circa 25 di vari tipi.
Data di scavo: 1862
- Il Lupanare di Pompei rappresenta una delle mete irrinunciabili per moltissimi visitatori.