Tutte le arti contribuiscono all'arte più grande di tutte: quella di vivere (Bertolt Brecht)

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Alchimia del verbo – Arthur Rimbaud

“Soleil levant” di Claude Monet, olio su tela 48x63 cm, Musée Marmottan Monet, Paris

“Soleil levant” di Claude Monet, olio su tela 48x63 cm, Musée Marmottan Monet, Paris

 

“Soleil levant” di Claude Monet, olio su tela 48x63 cm, Musée Marmottan Monet, Paris

“Soleil levant” di Claude Monet, olio su tela 48×63 cm, Musée Marmottan Monet, Paris

ALCHIMIA DEL VERBO – Arthur Rimbaud

ALCHIMIE DU VERBE – Arthur Rimbaud 

 

Lo sposo infernale

L’Epoux infernal

 

A me. La storia di una delle mie follie.

Da molto tempo mi vantavo di possedere tutti i paesaggi possibili, e trovavo ridicole le celebrità della pittura e della poesia moderna.

Mi piacevano i dipinti idioti, sovrapporte, addobbi, tele da saltimbanchi, insegne, miniature popolari; la letteratura fuorimoda, latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, romanzi delle nostre bisavole, racconti di fate, libretti per bambini, vecchie opere, semplici ritornelli, ritmi ingenui.

Sognavo crociate, spedizioni di cui non esistono relazioni, repubbliche senza storia, guerre di religione represse, rivoluzioni dei costumi, spostamenti di razze e continenti: credevo a tutti gli incantesimi.

Inventai il colore delle vocali! – A nera, E bianca, I rossa, O blu, U verde. – Regolai la forma e il movimento di ogni consonante, e, con ritmi istintivi, mi lusingai d’inventare un verbo poetico accessibile, un giorno o l’altro, a tutti i sensi. Riservavo la traduzione.

Fu all’inizio uno studio. Scrivevo silenzi, notti, annotavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini.

 

_____________

 

Lontano dagli uccelli, dai greggi, dalle contadine,

Che mai bevevo, in ginocchio in quella brughiera

Circondata da teneri boschetti di noccioli,

In una foschia pomeridiana tiepida e verde?

 

Che mai potevo bere in quella giovane Oise,

– Olmi senza voce, erba senza fiori, cielo coperto! –

– Bere a quelle zucche gialle, lontano dalla mia cara

Capanna? Qualche liquore d’oro che fa sudare.

 

Facevo una losca insegna di locanda.

– Un temporale venne a scacciare il cielo. A sera

L’acqua dei boschi si perdeva sulle sabbie vergini,

Il vento di Dio gettava ghiaccioli agli stagni;

 

Piangevo, e vedevo oro, – e non potevo bere. –

 

Alle quattro del mattino, d’estate,

Il sonno d’amore dura ancora.

Sotto i boschetti svapora

L’odore della sera di festa.

 

Laggiù, nel loro vasto cantiere

Al sole delle Esperidi,

Già si agitano – scamiciati –

I Carpentieri.

 

Nei loro Deserti di muschio, tranquilli,

Preparano i pannelli preziosi

Su cui la città

Dipingerà cieli falsi.

 

Oh, per questi Operai affascinanti,

Sudditi di un re di Babilonia,

Venere! lascia un istante gli Amanti

Che hanno l’anima incoronata.

 

Oh Regina dei Pastori,

Porta ai lavoratori l’acquavite,

Perché le loro forze si rilassino

Mentre aspettano il bagno in mare a mezzogiorno.

 

Amai il deserto, i frutteti bruciati, le botteghe avvizzite, le bevande intiepidite. Mi trascinavo per vicoli puzzolenti e, chiusi gli occhi, mi offrivo al sole, dio di fuoco.

“Generale, se rimane un vecchio cannone sui tuoi bastioni in rovina, bombardaci con blocchi di terra secca. Sugli specchi di splendidi negozi! nei salotti! Fa’ che la città mangi la sua polvere. Ossida le grondaie. Riempi i boudoirs di polvere di rubino rovente…”

Oh! il moscerino inebriato al pisciatoio della locanda, innamorato della borragine, e che un raggio dissolve!

 

 

Fame

 

Se ho fame, è soltanto

Di terra e di pietre.

Mi nutro sempre d’aria,

Di roccia, di carbone, di ferro.

 

Fami mie, girate. Brucate, fami,

Il prato dei suoni.

Succhiate il gaio veleno

Dei convolvoli.

 

Mangiate i sassi spaccati

Le vecchie pietre di chiese;

I ciottoli dei vecchi diluvi,

Pani sparsi nelle valli grige.

 

__________

 

Il lupo urlava tra le foglie

Sputando le belle piume

Del suo pasto di pollame:

Come lui io mi consumo.

 

L’insalata, la frutta

Aspettano solo d’esser colte;

Ma il ragno della siepe

Non mangia che violette.

 

Che io dorma! che bollisca

Sugli altari di Salomone.

Il brodo corre sulla ruggine,

E si mischia col Cedrone.

 

Infine, o felicità, o ragione, scostai dal cielo l’azzurro, che è un nero, e vissi, scintilla d’oro della luce natura. Della gioia, assumevo un’espressione quanto più buffonesca e smarrita possibile:

 

È ritrovata!

Che cosa? L’eternità.

È il mare che si fonde

Col sole.

 

Anima mia eterna,

Osserva il tuo volto

Malgrado la notte sola

E il giorno in fiamme.

 

Dunque ti divincoli

Da umani suffragi,

Da comuni slanci

Tu voli a seconda…

 

– Mai la speranza.

Nessun orietur

Scienza e pazienza,

Il supplizio è certo.

 

Mai più un domani,

Braci di raso,

Il vostro ardore

È il dovere.

 

È ritrovata!

– Che cosa? – L’Eternità.

È il mare che si fonde

Col sole.

 

Divenni un’opera favolosa: vidi che tutti gli esseri hanno un destino di felicità: l’azione non è la vita, ma un modo di sprecare una qualche forza, uno snervamento. La morale è la debolezza del cervello.

Ad ogni essere mi sembravano dovute molte altre vite. Quel signore non sa quel che fa: è un angelo. Questa famiglia è una covata di cani. Davanti a molti uomini, parlai ad alta voce con un momento di una delle loro altre vite. – Così, amai un porco.

Non ho dimenticato nessuno dei sofismi della follia, – la follia da ricovero: potrei ripeterli tutti, possiedo il sistema.

La mia salute fu minacciata. Veniva il terrore. Piombavo in sonni di giorni e giorni, e, alzato, continuavo i sogni più tristi. Ero maturo per il trapasso, e lungo una strada di pericoli la mia debolezza mi conduceva ai confini del mondo e della Cimmeria, patria d’ombra e di vortici.

Dovetti viaggiare, distrarre gli incantesimi adunati sul mio cervello. Sul mare, che ho amato come se avesse dovuto lavarmi da qualche sozzura, vedevo levarsi la croce consolatrice. Ero stato dannato dall’arcobaleno. La Felicità era la mia fatalità, il mio rimorso, il mio tarlo: la mia vita sarebbe sempre troppo immensa per essere consacrata alla forza e alla bellezza.

La Felicità! Il suo dente, dolce da morire, mi avvertiva al canto del gallo – ad matutinum, al Christus venit, – nelle città più oscure.

 

 

O stagioni, o castelli!

C’è anima senza difetti?

 

Ho fatto il magico studio

Della felicità, cui nessuno sfugge.

 

Salute a lei, ogni volta

Che il gallo celtico canta.

 

Ah! non avrò più desideri:

si prende cura della mia vita.

 

Quest’incanto ha preso anima e corpo

E disperso gli sforzi.

 

O stagioni, o castelli!

 

L’ora della sua fuga, ahimè!

Sarà l’ora del trapasso.

 

O stagioni, o castelli!

 

 

_________________

 

 

Questo è accaduto. Oggi io so salutare la bellezza.

  • Arthur Rimbaud (1854-1891)

 

~ § ~

 

 

A moi. L’histoire de mes folies.
Depuis longtemps je me vantais de posséder tous les paysages possibles, et trouvais dérisoire les célébrités de la peinture et de la poésie moderne.
J’aimais les peintures idiotes, dessus de portes, décors, toiles de saltimbanques, enseignes, enluminures populaires ; la littérature démodée, latin d’église, livres érotiques sans orthographe, romans de nos aïeules, contes de fées, petits livres de l’enfance, opéras vieux, refrains niais, rythmes naïfs.
Je rêvais croisades, voyages de découvertes dont on n’a pas de relations, républiques sans histoires, guerres de religion étouffées, révolutions de moeurs, déplacements de races et de continents : je croyais à tous les enchantements.
J’inventai la couleur des voyelles ! – A noir, E blanc, I rouge, O bleu, U vert. – Je réglai la forme et le mouvement de chaque consonne, et, avec des rythmes instinctifs, je me flattai d’inventer un verbe poétique accessible, un jour ou l’autre, à tous les sens. Je réservais la traduction.
Ce fut d’abord une étude. J’écrivais des silences, des nuits, je notais l’inexprimable. Je fixais des vertiges.

***

Loin des oiseaux, des troupeaux, des villageoises,
Que buvais-je, à genoux dans cette bruyère
Entourée de tendres bois de noisetiers,
Dans un brouillard d’après-midi tiède et vert ?

Que pouvais-je boire dans cette jeune Oise,
– Ormeaux sans voix, gazon sans fleurs, ciel couvert !
Boire à ces gourdes jaunes, loin de ma case
Chérie ? Quelque liqueur d’or qui fait suer.

Je faisais une louche enseigne d’auberge.
– un orage vint chasser le ciel. Au soir
L’eau des bois se perdaient sur les sables vierges,
Le vent de Dieu jetait des glaçons aux mares ;

Pleurant, je voyais de l’or – et ne pus boire. –

***

A quatre heures du matin, l’été,
Le sommeil d’amour dure encore.
Sous les bocages s’évapore
L’odeur du soir fêté.

Là-bas, dans leur vaste chantier
Au soleil des Hespérides,
Déjà s’agitent – en bras de chemise –
Les Charpentiers.

Dans leurs Déserts de mousse, tranquilles,
Ils préparent les lambris précieux
Où la ville
Peindra de faux cieux.

O, pour ces Ouvriers charmants
Sujets d’un roi de Babylone,
Vénus ! quitte un instant les Amants
Dont l’âme est en couronne.

O Reine des Bergers,
Porte aux travailleurs l’eau-de-vie,
Que leurs forces soient en paix
En attendant le bain dans la mer à midi.

***

La vieillerie poétique avait une bonne part dans mon alchimie du verbe.
Je m’habituai à l’hallucination simple : je voyais très franchement une mosquée à la place d’une usine, une école de tambours faite par des anges, des calèches sur les routes du ciel, un salon au fond d’un lac ; les monstres, les mystères ; un titre de vaudeville dressait des épouvantes devant moi.
Puis j’expliquai mes sophismes magiques avec l’hallucination des mots !
Je finis par trouver sacré le désordre de mon esprit. J’étais oisif, en proie à une lourde fièvre : j’enviais la félicité des bêtes, – les chenilles, qui représentent l’innocence des limbes, les taupes, le sommeil de la virginité !
Mon caractère s’aigrissait. Je disais adieu au monde dans d’espèces de romances :

Chanson de la plus haute tour

Qu’il vienne, qu’il vienne,
Le temps dont on s’éprenne.

J’ai tant fait patience
Qu’à jamais j’oublie.
Craintes et souffrances
Aux cieux sont parties.
Et la soif malsaine
Obscurcit mes veines.

Qu’il vienne, qu’il vienne,
Le temps dont on s’éprenne.

Telle la prairie
A l’oubli livrée,
Grandie, et fleurie
D’encens et d’ivraies,
Au bourdon farouche
Des sales mouches.

Qu’il vienne, qu’il vienne,
Le temps dont on s’éprenne.

J’aimai le désert, les vergers brûlés, les boutiques fanées, les boissons tiédies. Je me traînais dans les ruelles puantes et, les yeux fermés, je m’offrais au soleil, dieu de feu.
“Général, s’il reste un vieux canon sur tes remparts en ruines, bombarde-nous avec des blocs de terre sèche. Aux glaces des magasins splendides ! dans les salons ! Fais manger sa poussière à la ville. Oxyde les gargouilles. Emplis les boudoirs de poudre de rubis brûlante…”
Oh ! le moucheron enivré à la pissotière de l’auberge, amoureux de la bourrache, et que dissout un rayon !

Faim.

Si j’ai du goût, ce n’est guère
Que pour la terre et les pierres.
Je déjeune toujours d’air,
De roc, de charbons, de fer.

Mes faims, tournez. Paissez, faims,
Le pré des sons.
Attirez le gai venin
Des liserons.

Mangez les cailloux qu’on brise,
Les vieilles pierres d’églises ;
Les galets des vieux déluges,
Pains semés dans les vallées grises.

***

Le loup criait sous les feuilles
En crachant les belles plumes
De son repas de volailles :
Comme lui je me consume.

Les salades, les fruits
N’attendent que la cueillette ;
Mais l’araignée de la haie
Ne mange que des violettes.

Que je dorme ! que je bouille
Aux autels de Salomon.
Le bouillon court sur la rouille,
Et se mêle au Cédron.

Enfin, ô bonheur, ô raison, j’écartai du ciel l’azur, qui est du noir, et je vécus, étincelle d’or de la lumière nature. De joie, je prenais une expression bouffonne et égarée au possible :

Elle est retrouvée !
Quoi ? l’éternité.
C’est la mer mêlée
Au soleil.

Mon âme éternelle,
Observe ton voeu
Malgré la nuit seule
Et le jour en feu.

Donc tu te dégages
Des humains suffrages,
Des communs élans !
Tu voles selon…

– Jamais l’espérance.
Pas d’orietur.
Science et patience,
Le supplice est sûr.

Plus de lendemain,
Braises de satin,
Votre ardeur
Est le devoir.

Elle est retrouvée !
– Quoi ? – l’Eternité.
C’est la mer mêlée
Au soleil.

***

 

Je devins un opéra fabuleux : je vis que tous les êtres ont une fatalité de bonheur : l’action n’est pas la vie, mais une façon de gâcher quelque force, un énervement. La morale est la faiblesse de la cervelle.
A chaque être, plusieurs autres vies mes semblaient dues. Ce monsieur ne sait ce qu’il fait : il est un ange. Cette famille est une nichée de chiens. Devant plusieurs hommes, je causai tout haut avec un moment d’une de leurs autres vies. – Ainsi, j’ai aimé un porc.
Aucun des sophismes de la folie, – la folie qu’on enferme, – n’a été oublié par moi : je pourrais les redire tous, je tiens le système.
Ma santé fut menacée. La terreur venait. Je tombais dans des sommeils de plusieurs jours, et, levé, je continuais les rêves les plus tristes. J’étais mûr pour le trépas, et par une route de dangers ma faiblesse me menait aux confins du monde et de la Cimmérie, patrie de l’ombre et des tourbillons.
Je dus voyager, distraire les enchantements assemblés sur mon cerveau. Sur la mer, que j’aimais comme si elle eût dû me laver d’une souillure, je voyais se lever la croix consolatrice. J’avais été damné par l’arc-en-ciel. Le Bonheur était ma fatalité, mon remords, mon ver : ma vie serait toujours trop immense pour être
dévouée à la force et à la beauté.
Le Bonheur ! Sa dent, douce à la mort, m’avertissait au chant du coq, – ad matutinum, au Christus venit, – dans les plus sombres villes :

O saisons, ô châteaux !
Quelle âme est sans défauts ?

J’ai fait la magique étude
Du bonheur, qu’aucun n’élude.

Salut à lui, chaque fois
Que chante le coq gaulois.

Ah ! je n’aurai plus d’envie :
Il s’est chargé de ma vie.

Ce charme a pris âme et corps
Et dispersé les efforts.

O saisons, ô châteaux !

L’heure de sa fuite, hélas !
Sera l’heure du trépas.

O saisons, ô châteaux !

***

Cela s’est passé. Je sais aujourd’hui saluer la beauté.

  • Arthur Rimbaud (1854-1891)