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Capaci 23 maggio 1992 – 30 anni dalla strage in cui morirono Falcone, la moglie e tre agenti

Giovanni Falcone e la moglie Francesca Sorvillo

Sono passati 30 anni. Si stenta a crederci perché, per chi c’era, il ricordo di quel giorno è vivissimo e brucia ancora. Un giorno assolato di maggio, un sabato pomeriggio di primavera che scivolava via veloce, tra un gelato, un primo tuffo al mare, gli ultimi ripassi in vista della fine della scuola, un matrimonio nel mese più amato dagli sposi. Un giorno come tanti in quell’Italia del 1992, che un’esplosione da oltre 500 kg di tritolo scosse nel profondo lasciandola in lutto. E non sarebbe stata nemmeno l’unica di quella lunga “estate delle stragi”.

Il 23 maggio del 1992 il magistrato antimafia Giovanni Falcone atterra all’aeroporto di Punta Raisi di ritorno da Roma. Finalmente a casa, nella sua terra. Una terra, però, dove si annidano i suoi peggiori nemici: nemici giurati che lo vogliono morto e che amano attentati plateali a favore di telecamera, ideati per far tremare il Paese e costringere le istituzioni a compromessi nefandi.

Con lui viaggia la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli uomini della scorta. Falcone decide di mettersi alla guida della Fiat Croma bianca blindata, come un uomo qualunque che vuole rilassarsi nel breve tragitto che collega l’aeroporto alla città. Un gesto che risulterà fatale, perché Giuseppe Costanza, l’autista giudiziario seduto sui sedili posteriori dell’auto, sopravvivrà all’esplosione.

Gli agenti di Polizia: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani

Alle 17.57, all’altezza dello svincolo per Capaci, l’auto di Falcone e quelle della sua scorta vengono investite da un’esplosione che fa schizzare in alto i sismografi di tutta la Sicilia. La prima auto del convoglio, sui cui viaggiano gli uomini della scorta Luigi Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo, viene letteralmente sbalzata via in un ammasso di lamiere, ritrovata successivamente a un centinaio di metri di distanza tra gli alberi di ulivo. L’auto dove viaggia Falcone viene quasi spezzata in due e resta in bilico sulla voragine creata dall’esplosione con all’interno i passeggeri gravemente feriti ma ancora vivi. La terza auto, su cui viaggiano gli agenti della scorta Angelo Corbo, Gaspare Cervello e Paolo Capuzza, si schianta sul guardrail e viene investita dalle macerie dovute all’esplosione, ma fortunatamente gli agenti restano illesi e possono, per quanto possibile, prestare soccorso.

Da quel giorno, il 23 maggio diventa il giorno della “Strage di Capaci”. Uno dei più eclatanti attentati mafiosi in cui muore il simbolo della lotta alla mafia, sua moglie e tre uomini della scorta. In totale si contano oltre venti feriti, tra cui anche alcuni automobilisti che si trovavano a transitare vicino al punto della deflagrazione.

È un giorno di lutto nazionale. Un giorno di sgomento per una Sicilia abituata ai morti di mafia e alla consuetudine di dimenticare come estremo atto di difesa, per riuscire ad andare avanti. Una Sicilia che però, ferita ancora una volta, non può più voltarsi dall’altra parte e deve iniziare a reagire.

A Palermo avvertivo l’omertà, il disinteresse. Dopo quelle stragi il cittadino comune si è svegliato, c’è stata una reazione, ma perché aspettare tanto? Lo dovevano fare prima, così forse questi due eccezionali magistrati sarebbero ancora tra di noi

Giuseppe Costanza, autista di Giovanni Falcone

L’autostrada squarciata viene così ricostruita in breve tempo, anche se nessuno potrà scordare l’immagine di quel cratere, dei guardrail accartocciati, della polvere e dei detriti che ricoprono tutto come in una scena di guerra.

Poco tempo dopo la ricostruzione, il guardrail accanto al punto della strage viene dipinto di vernice rossa e compare la scritta “NO MAFIA” sulla casupola che si trova sul declivio montuoso al lato dell’autostrada, da dove è stato premuto il detonatore della bomba.
Gesti simbolici, spontanei, manifestazioni di un dolore che non si può tenere dentro. Gesti di solidarietà per tutte quelle persone oneste che ogni giorno rischiano la loro vita per provare a costruire un Paese migliore, libero dal cappio mafioso. Nella loro semplicità, sono omaggi di grandissimo effetto alla memoria delle vittime perché mostrano l’indignazione dell’uomo comune.

Nel 2004 viene invece inaugurato un monumento alla memoria della Strage di Capaci: due obelischi, uno per ogni carreggiata di marcia, con indicati i nomi delle vittime. Ai piedi di questo monumento si trova il “Giardino della Memoria Quarto Savona Quindici”, chiamato così dal nome in codice della Fiat Croma marrone su cui persero la vita i tre agenti della scorta. I resti accartocciati della vettura sono stati collocati in una teca dall’associazione “Quarto Savona Quindici” fondata dalla vedova di Antonio Montinaro, che con il suo impegno offre da molti anni un presidio contro la criminalità organizzata. La teca viaggia in tutta Italia per essere esposta in piazze, musei, luoghi e manifestazioni significative con lo scopo di affermare il valore della memoria: come quel guardrail dipinto di rosso, anche questa teca serve da monito, da simbolo di resilienza e della voglia di legalità e giustizia.

A distanza di 30 anni ricordiamo Giovanni Falcone e il suo coraggio, recentemente celebrato anche dallo scrittore Roberto Saviano nel suo ultimo libro Solo è il coraggio, nonché il suo inestimabile lascito. Scegliamo di farlo attraverso alcune delle parole pronunciate da Paolo Borsellino durante i funerali del suo collega e amico:

“Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo (…) egli mi disse: «La gente fa il tifo per noi». E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro stava anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera forza di essa. (…) Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, della dolcissima Francesca, dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere; rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia.
Troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo.”

Poche settimane dopo aver pronunciato questo discorso, anche il giudice Borsellino verrà ucciso dalla mafia, fatto saltare in aria insieme a cinque agenti della sua scorta il 19 luglio 1992.

 

Un’”estate delle stragi” che sembrava aver gettato nello sconforto più nero tutta Italia e reso più forte Cosa Nostra.

E a questa speranza dà voce anche Maria Falcone, sorella di Giovanni, nel suo libro L’eredità di un giudice:

Ripercorrendo questi tre decenni, ricordando quando tutto iniziò e sembrava che tutto, invece, fosse finito, mi sento di affermare che la mafia non ha vinto. La rivoluzione non è compiuta, ma siamo in cammino e di una cosa sono certa: la vita e la morte di Giovanni non sono state inutili

Maria Falcone

A questa reazione sociale ancora in atto, ben più radicata di una semplice emozione legata al ricordo, ci uniamo anche noi e tutti coloro sulle cui gambe continuano a poggiare salde e mai dimenticate le idee di Giovanni Falcone.