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Arte

La dorata seduzione delle donne di Klimt

Gustav Klimt
Giuditta I (dettaglio), 1901

LA DORATA SEDUZIONE DELLE DONNE DI KLIMT

Di Eleonora Modaffari

Lo sguardo socchiuso come quello di una vipera, la bocca rossa sanguinea e tanto, tantissimo oro: questa è la Giuditta di Klimt. Immediatamente riconoscibile, iconica ma anche spaventosa. Trasmette tutta l’ambigua attrazione che il pittore provava nei confronti delle donne, avvertite come femme fatale: pericolose tentatrici, figure da temere ma anche portatrici di salvezza.

Giuditta I di Gustav Klimt (1901)

Nato nel 1862 in un sobborgo di Vienna, Klimt sviluppa il suo senso artistico fin dai primissimi anni di vita nella bottega del padre, un orafo che per primo gli trasmette il fascino dell’uso dell’oro, per poi muovere i primi passi nella scuola d’Arte e Mestieri dell’Austria dove prende confidenza con le diverse tecniche artistiche. Entrato presto in contrasto con la rigida tradizione accademica, nel 1897 fonda con altri diciannove colleghi la Secessione Viennese: questi artisti non avevano uno stile prediletto, auspicavano ad un’unione di più arti (design, architettura, pittura…) in un’ottica di respiro europeo vicina alle tendenze dell’Art Nouveau. La vera svolta nella produzione klimtiana si ha nel 1903, quando si reca due volte a Ravenna. Qui il pittore conosce lo splendore dei mosaici bizantini e scopre nell’oro un mezzo per trasfigurare la realtà, per infondere un prezioso erotismo nelle sue figure e trasmettere così il senso di ricchezza e austerità che ancora oggi colpisce. Figlie di questo periodo aureo, sono le opere che rappresentano la Giuditta I e Adele Bloch-Bauer.

Gustav Klimt, Giuditta I (dettaglio), 1901

Portatrice insieme di vita e di morte, Giuditta si staglia su uno sfondo dorato come un’antica icona salvifica da venerare, stringendo allo stesso tempo tra le mani la testa dell’ultimo uomo che ha provato a dominarla.
L’opera rappresenta Giuditta, la mitica eroina biblica che offrì se stessa al capo degli Assiri, Oloferne, per convincerlo a togliere d’assedio la sua città, salvo poi tagliargli la testa appena addormentato. Nei secoli, Giuditta ha sempre rappresentato l’immagine archetipica della donna coraggiosa, simbolo dell’homo faber fortunae suae : l’uomo (donna, pardon!) artefice del proprio fato, intelligente, che non accetta il proprio destino e decide di ribellarsi ad esso. Questa figura colpisce in maniera incisiva la produzione klimtiana, soprattutto perchè permette all’artista di rappresentare la donna come lui l’aveva sempre immaginata: pericolosa, tentatrice, crudele ma pur sempre portatrice di vita. L’immagine si sviluppa in verticale e, per meglio enfatizzare il potere seduttivo della femme fatale, la donna occupa quasi tutta la tela mentre alla testa di Oloferne è dedicato un piccolo spazio ai margini. Il forte simbolismo di cui questa opera è impregnata è incentrato tutto sull’esaltazione della femme fatale: la donna, rappresentata in un piano quasi del tutto bidimensionale tranne che per il volto e il seno nudo, è circondata dalla chioma corvina che si espande come un oscuro nimbo intorno alla testa. Col proprio crudele potere di seduzione è in grado di soggiogare l’uomo fino a condurlo alla distruzione, al margine della storia e del dipinto: un inno al potere femminile. L’oro è il mezzo attraverso cui Klimt si avvicina al nostro inconscio, riportandoci alla mente l’iconografia bizantina ricca di sfondi dorati e figure ieratiche in posizione frontale: figure da idolatrare, da rispettare e temere, basti pensare ai mosaici di san Vitale a Ravenna.

La modella che Klimt prese a riferimento per la rappresentazione della Giuditta è Adele Bloch-Bauer, una donna dell’alta società viennese che, come Giuditta, bramava una libertà (quasi) irraggiungibile.

Ritratto di Adele Bloch-Bauer di Gustav Klimt

Adele era colta, complessa, bramosa di conoscenza: “Era continuamente alla ricerca di emozioni e sollecitazioni intellettuali. Non era felice”, così la descrive la nipote Maria Altmann, “avrebbe voluto frequentare l’università, inammissibile per le donne del suo tempo. La via di fuga era una preparazione culturale conseguita con ferrea volontà e disciplina”. Non è difficile perciò intuire perchè Klimt fosse così affascinato da Adele, tanto da farne l’unica donna rappresentata più volte nei suoi dipinti. Perchè scelse proprio lei per impersonificare anche Giuditta? Per la forte determinazione, che le caratterizza entrambe, di dominare il proprio destino. Adele appare assisa in trono, circondata da una nuvola dorata ricca di elementi fortemente simbolici: l’occhio di Horus sulla veste, simbolo di prosperità, si fonde perfettamente con gli elementi spiraleggianti del trono. Come una Madonna congiunge le mani ma in modo quasi nervoso, a disagio, capovolgendo del tutto il significato del gesto dandogli una connotazione angosciosa. Il suo sguardo languido è rivolto all’osservatore che, di rimando, non può che ammirare la soffusa luce dorata di cui l’artista la circonda. Nulla risulta immune a questo vibrante fulgore tranne le mani e il volto. Il forte contrasto tra questa luce accecante e il colorito cadaverico della donna ricorda una pianta carnivora: attira per la sua bellezza e la sua rara preziosità, ma conduce a morte certa. Vita e morte, eros e thanatos, questi sono i temi inevitabilmente legati che tormentarono Klimt per tutta la vita, portandolo a rappresentarli in maniera quasi ossessiva non solo in questi due dipinti, ma in tutta la sua produzione artistica.

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