Tutte le arti contribuiscono all'arte più grande di tutte: quella di vivere (Bertolt Brecht)

Poesia

Giacomo Leopardi – Alla Primavera

Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi

 

AUDIO: Ludwig van BEETHOVEN: Sonata n. 5 in FA Maggiore op. 24 – “LA PRIMAVERA”

Giacomo LeopardiCanti (1917)
VII
Alla primavera, o delle favole antiche

    Perché i celesti danni
ristori il Sole, e perché l’aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
delle nubi la grave ombra s’avvalla;
credano il petto inerme
gli augelli al vento, e la diurna luce
novo d’amor desio, nova speranza
ne’ penetrati boschi e fra le sciolte
pruine induca alle commosse belve;
forse alle stanche e nel dolor sepolte
umane menti riede
la bella etá, cui la sciagura e l’atra
face del ver consunse
innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
di Febo i raggi al misero non sono
in sempiterno? ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
questo gelido cor, questo ch’amara,
nel fior degli anni suoi, vecchiezza impara?

   Vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi, e il dissueto orecchio
della materna voce il suono accoglie?
Giá di candide ninfe i rivi albergo,
placido albergo e specchio
fûro i liquidi fonti. Arcane danze
d’immortal piede i ruinosi gioghi
scossero e l’ardue selve (oggi romito
nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre
meridiane incerte, ed al fiorito
margo adducea de’ fiumi

le sitibonde agnelle, arguto carme
sonar d’agresti Pani
udí lungo le ripe, e tremar l’onda
vide, e stupí, ché, non palese al guardo,
la faretrata diva
scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
polve tergea della sanguigna caccia
il niveo lato e le verginee braccia.

     Vissero i fiori e l’erbe,
vissero i boschi un dí. Conscie le molli
aure, le nubi e la titania lampa
fûr dell’umana gente, allor che ignuda
te per le piagge e i colli,
ciprigna luce, alla deserta notte
con gli occhi intenti il viator seguendo,
te compagna alla via, te de’ mortali
pensosa immaginò. Che se, gl’impuri
cittadini consorzi e le fatali
ire fuggendo e l’onte,
gl’ispidi tronchi al petto altri nell’ime
selve remoto accolse,
viva fiamma agitar l’esangui vene,
spirar le foglie, e palpitar segreta
nel doloroso amplesso
Dafne o la mesta Filli, o di Climene
pianger credé la sconsolata prole
quel che sommerse in Eridano il Sole.

     Né dell’umano affanno,
rigide balze, i luttuosi accenti
voi negletti ferîr, mentre le vostre
paurose latèbre Eco solinga,
non vano error de’ venti,
ma di ninfa abitò misero spirto,
cui grave amor, cui duro fato escluse
delle tenere membra. Ella per grotte,
per nudi scogli e desolati alberghi,
le non ignote ambasce e l’alte e rotte
nostre querele al curvo
Etra insegnava. E te d’umani eventi
disse la fama esperto,
musico augel, che tra chiomato bosco
or vieni il rinascente anno cantando,
e lamentar nell’alto
ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
antichi danni e scellerato scorno,
e d’ira e di pietá pallido il giorno.

     Ma non cognato al nostro
il gener tuo; quelle tue varie note
dolor non forma, e te, di colpa ignudo,
men caro assai la bruna valle asconde.
Ahi, ahi! poscia che vòte
son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono,
per l’atre nubi e le montagne errando,
gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro
in freddo orror dissolve; e poi ch’estrano
il suol nativo, e di sua prole ignaro,
le meste anime edúca;
tu le cure infelici e i fati indegni,
tu de’ mortali ascolta,
vaga Natura, e la favilla antica
rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
e se de’ nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell’aprica
terra s’alberga o nell’equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno.

La Primavera di Botticelli

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